Com’è possibile che uno dei più famosi ristoranti al mondo chiuda per i costi insostenibili? Se chiudono loro, che speranze abbiamo noi? (Spoiler: ne abbiamo.)
Da una settimana non si parla d’altro sulla stampa specializzata e non. La notizia che il ristorante Noma di Copenhagen, ed il suo istrionico chef René Redzepi, gettino la spugna dopo anni di successi planetari, 5 volte “Miglior ristorante al mondo” secondo The World’s 50 Best Restaurants e 3 stelle Michelin, è quantomeno sorprendente.

Ma come funziona il Noma, e perchè è così famoso?
Il nome viene dall’abbreviazione di due parole, Nordic e Mad (cibo in danese).
Fin dall’apertura nel 2003, la filosofia del ristorante è sempre stata chiara: utilizzare solo ingredienti locali e di stagione, in un ambiente semplice ma curato in stile nordico.
Adesso sembra facile, ma nel 2003 eravamo tutti affascinati dal lusso di French Laundry, dalla cucina molecolare di El Bulli e dai vini barriccati della Napa Valley. Quando ha aperto, nessuno credeva che il Noma sarebbe durato a lungo. La cucina nordica era sconosciuta come lo era lo stile minimalista che oggi è diffuso e sdoganato.
Pochi tavoli, niente tovaglie, solo ingredienti super locali e stagionali e servizio ridotto all’essenziale. Vini biologici o succhi di frutta e arbusti danesi.
Nel 2008 il Noma arriva al decimo posto nella classifica The World’s 50 Best Restaurants, nel 2009 al terzo, è primo nel 2010, 2011 e 2012 e poi sempre nei primi 3 posti fino al 2016 quando scende al quinto posto per poi scomparire dai radar.
E’ una cucina nuovissima ed originale quella proposta al Noma, così come è originale lo stile del servizio e l’atmosfera minimalista che se ne frega degli standard della guida Michelin (“sacrilege!”). Il Noma vince tutti i premi, pubblica mille libri sulle fermentazioni, la cucina nordica, il diario di Redzepi, etc.

Il noma chiude dopo tanto successo: com’è possibile?
Qualche giorno fa lo chef e co-proprietario del ristorante ha dichiarato che le spese sono diventate troppo alte ed il business model non regge più.
Ad oggi, il menù degustazione costa 470 euro ed il wine pairing 250 euro.
La foto che vedete poi più in alto si trova sul sito del ristorante e mostra una parte del centinaio di dipendenti, di cui una trentina stagisti. E proprio gli stagisti e i dipendenti hanno dichiarato le condizioni estremamente faticose di lavoro aprendo la discussione sul futuro del ristorante.
Se è vero che un’esperienza al Noma sul curriculum apriva tutte le porte della gastronomia, è anche vero che questo funzionava a meraviglia fino a quando il ristorante era tra i migliori al mondo. I trenta stagisti che il ristorante accettava non erano pagati, lavoravano 15-18 ore al giorno e vivevano situazioni di forte stress. Ma sopratutto non erano pagati.
Nel momento in cui il ristorante è sceso nel ranking e gli stagisti ed i dipendenti hanno chiesto condizioni di lavoro meno estreme, il “business model” non ha più funzionato.
Condizioni di lavoro etiche e nuovi trend
Quando sono stata al Noma nel 2014 sono rimasta scioccata. In tre ore abbiamo mangiato più di 20 piatti, nessuno dei quali sembrava realmente appetitoso. Licheni fritti, aceto fatto con le formiche, succo di tuberi grigiastri e innumerevoli creazioni interessanti ma lontanissime dalla mia cultura. Ma nonostante tutto mi sembrava evidente che quello era il futuro della gastronomia, come pochi anni prima lo era stata la cucina molecolare e prima ancora il super lusso burroso francese.
Sono riuscita a prenotare un tavolo solo perchè un’amica (head chef in un ristorante in Italia) stava facendo lì uno stage di 3 mesi non retribuito. Le condizioni di lavoro erano veramente faticose e stressanti, ma c’era la fila per poter scoprire i segreti di quelle cucine e la lista di attesa per entrare era lunghissima sia per gli stagisti, sia per i clienti. E dover pagare 30 persone in più fa la sua differenza.
E poi i trend cambiano e tutti ne abbiamo abbastanza di carote fermentate e licheni fritti. Sebbene Redzepi abbia cercato più volte di reinventarsi (durante la pandemia il Noma è diventato un locale di burger da asporto), l’anima nordica non ha più il fascino di 10 anni fa. Nonostante tutto, quando ho letto “il Noma chiude” ci sono rimasta male.
Il Noma chiude. Che cosa possiamo imparare da questa storia?
Ci sono tante lezioni da imparare, secondo me.
Sicuramente va dato il merito allo chef di aver creato un trend e di averlo saputo sfruttare per anni al livello più alto della ristorazione.
Secondo dobbiamo prendere atto che la pandemia ci ha fatto rivalutare l’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, per cui sempre meno persone sono disposte a lavorare 16 ore al giorno, indipendentemente dal settore in cui operano.
Terzo, cavalcare i trend funziona benissimo fino a quando i trend sono in voga. Nel momento in cui la bolla esplode, il business model non regge più. Pertanto sarebbe meglio costruire su basi solide e, eventualmente, differenziare l’offerta per evitare situazioni tipo quella del Noma.